Pechino – Parigi in 500 – Giorno 1

di Roberto Chiodi

 

Quello che state leggendo spero sia il racconto di un sopravvissuto, convinto che per la quarta volta sarebbe riuscito a concludere la Pechino-Parigi, “l’Everest dei rally”. Le precedenti esperienze avevano forgiato il vostro cronista, ben consapevole quindi che la sfida estrema a compiere la nona edizione a bordo di una Fiat 500 del ‘73 sarebbe stata assai dura, molto di piú rispetto alle altre volte: 15 mila chilometri, tutti i ricambi a bordo, nessuna assistenza programmata, le peggiori strade (quando ci sono…) della Cina, del Kazakistan fino al Caspio.

Insomma una prova durissima per le vetture più potenti, più resistenti e affidabili della storia dell’automobilismo: e noi? A bordo di una scatoletta, una bambina rispetto ai corazzieri, poca potenza motore, spazi davvero risicati, serbatoio ridicolo per i 4-500 km al giorno, scomoda sul fondo sconnesso.

E però, quando abbiamo constatato quanta simpatia, ammirazione, meraviglia ha cominciato a suscitare fin dal primo momento, tutti i timori si sono sciolti e abbiamo deciso subito che qualsiasi sacrificio sarebbe stato ripagato.

Tanto per cominciare, anche i preparativi sono stati tormentati. La decisione folle di partire l’abbiamo presa alla fine di giugno, la 500 si é imbarcata sei mesi dopo. Preparare una vettura del genere per una simile gara di mesi ce ne sarebbero voluti il triplo. Tanto per dire: il rodaggio non ha superato i mille chilometri, compiuti su strade normali (che non hanno davvero nulla da spartire – come idea di fondo – con le asiatiche tracce nel nulla, dove spesso anche capre e cammelli faticano a compierle). Ammetto che l’entusiasmo ci ha preso la mano e una volta che l’idea ha cominciato a dominarci anche le pastoie burocratiche, assicurative, editoriali, diplomatiche, mediche e motoristiche le abbiamo, se non proprio risolte almeno reso inoffensive. Fatto sta che il 13 maggio ci siamo sistemati sul volo diretto Air China e, dieci ore dopo nell’albergo Shangri-Lá, croce e delizia di noi avventurieri. Che oramai siamo legati a tutte le diavolerie elettroniche di uso comune e renderci conto che Internet è tutto quello che può esserci intorno funziona poco e male, ti cambia la vita. Un ritardo doganale ha ritardato la consegna dell’auto e un nuovo meccanismo poco logico ma molto cinese ha stravolto i tre giorni della pre-partenza. Per guidare occorre la loro patente, e va bene; serve soprattutto perché va collegata alla consegna della targa; indispensabile per ritirare la macchina, che però circolare solo nel percorso e nell’orario stabilito.

Insomma stava per saltare la tradizionale Festa del Made in Italy nella Residenza dell’ambasciatore Ambrosetti. La cui pazienza e gentilezza, unita alla competenza e disponibilità di tutto lo staff, hanno permesso un incontro vivace, alla mano e piacevole (come la lasagna e i gelati, che difficilmente avremmo ritrovato in viaggio).
Il via é cominciato di notte. Colazione alle 5, partenza per la Grande Muraglia all’alba di sabato perché comunque gli 80 chilometri per uscire dalla capitale e giungere al tratto di Grande Muraglia di Badaling si prendono almeno un’ora e mezzo. Altrettanto per impadronirsi delle nuove regole della manifestazione: dovrebbero essere a grandi linee quella di una gara di rally o di regolarità; ma ci vuole poco per complicarle. E poi il saggio organizzatore il giorno prima manda in avanscoperta sul tragitto la cosiddetta “zero car” che scopre tutte le cose che sono cambiate rispetto alle note precedenti, nella tappa ufficiale del giorno dopo. Le annota, le trascrive su un foglio che ti viene consegnato allo start. Dovresti così poter sistemare il road book; ma basta dover risolvere un problemino qualsiasi dell’ultimo momento e posporre la trascrizione dei piccoli cambiamenti e ti ritrovi su un’altra strada. Non auguro a nessuno un’esperienza del genere in Cina, sia nelle metropoli sia nelle campagne. Il tutto aggravato dall’assoluta incompressibilità non solo della lingua, ma anche dei gesti: tutto quello che noi facciamo con mani e braccia, occhi e smorfie, per loro significa solo che possono dirti qualcosa con un giro di parole misteriose. Però hanno i telefonini e ci tengono alla fotografia con te, pugno chiuso e pollice aperto, addirittura qualche inchino e approvazione incondizionata per il Cinquino!

Prima tappa a Datong, città già vista altre volte, adesso tanto più grande. Come Hohot: un grattacielo dopo l’altro, impressionante per un’edilizia verso l’alto, la modernità assoluta e il traffico che interpreta ordinatamente l’arbitrio. Ed eccoci a Ordos: la chiamano “città fantasma” perché ne é stato previsto lo sviluppo per una popolazione che ancora non c’é. Giusto al centro città é tutto nella norma, traffico e semafori. Divertente la doppia prova al circuito, come quelle precedenti: media oraria da rispettarsi su percorsi al limite della percorribilità, con l’aggiunta del cambio della velocità imposta. Roba da specialisti e da macchine giuste e performanti. Il Cinquino fa quello che può, ma con la soddisfazione di precedere in classifica addirittura una Fulvia HF. Un guasto al motorino di avviamento ha pregiudicato la classifica, ma c’é ancora più di un mese per recuperare. Domani e dopodomani c’é un bel pezzo di deserto, si dorme in tenda e tutto può succedere. Noi contiamo di raccontarvelo a Garlenda!